il tempo che non t’aspetti

Il tempo lento

D’estate, a Gaeta, in vacanza con mia nonna, la mia prozia e sua cognata. Mangiavo libri perché non avevo nessuno con cui giocare.

D’inverno, a Napoli, quando non piacevo a nessuno e a me piaceva solo un ragazzo che vedevo d’estate.

I pomeriggi a casa di papà. Quando mi ammalavo a casa di papà. Quando non c’era papà.

Quando M. mi lasciava e mi stendevo sul pavimento ad aspettare che mi crescessero le radici dalla spina dorsale.

Sul treno, tra Campoleone e Roma Termini.

Quando M. dormiva ed io mi svegliavo sempre troppo presto.

A Giugno, a Pechino, che mancava pochissimo al ritorno a casa.

A Maggio, a Wuhan, che non mangiavo più.

Nel grande giardino di M., quando guardavo le pecore passare ma non potevo toccarle.

Sulla spiaggia interminabile di Fondi, aspettando che qualcuno venisse a cercarmi.

In fila dall’ortodontista, sperando che finalmente m’avrebbe detto “Allora, lo togliamo questo apparecchio?”

Ad ogni appello di ogni esame della mia vita.

Nelle serate in cui devo fare buon viso a cattivo gioco e col cazzo che ci riesco.

Sulla tratta Firenze-Napoli.

Dopo aver mangiato il panino, al mare.

Il tempo che va di fretta

Prima di andare in scena. E durante.

Tra un dovere e un altro.

Tra una poesia e un’altra.

Tra il sabato lavorativo e il lunedì pure.

Tra gli occhi chiusi ed il risveglio.

I pomeriggi a fare all’amore, davvero quasi scompaiono.

Quando non vedo un’amica da troppo tempo

e vorrei raccontarle una cosa (molto interessante) in tutti i dettagli.

Quando sento le persone che amo, ridere.

I weekend a Napoli in cui nonna e zia mi viziano come se avessi cinque anni.

Le mattine in primavera.

Quando il tempo ha smesso d’aspettarmi

ho rinunciato ad avere il controllo della mia faccia

Ai miei trent’anni chiedo scusa

perché mi ero preparata a loro qualche anno fa

avevo apparecchiato la tavola, acceso le candele, tolto lo spumante dal frigo

ma son venuti adesso ed io

a che cazzo stavo pensando?

Le mani di mio padre

A volte mi capita di guardare le mani di mio padre, spesso spaccate e ferite da una questione dermatologica psicosomatica. Anche a me capita, non spessissimo, che tra le dita si formino piccoli tagli e che la parte interna di me faccia capolino e saluti, senza che nessuno le abbia fatto o chiesto niente.

Guardo le sue mani, che sono le mie (sì, ho preso le sue mani, il che non è una cosa per nulla brutta dato che sono piccole e graziose), ed è sempre strano vedere cose proprie addosso agli altri.

Quando le guardo noto che sono così precise, così sicure, che sono le mani di un ingegnere, e mi rendo conto che deve essere proprio tutta questione mentale. Lui riesce sempre a fare delle linee dritte, a mettere lo scotch, a piegare i fogli che se usasse la squadretta farebbe peggio. In qualche posto lì dentro ci sono sicuramente del caos e del dolore, ma le sue mani non tradiscono alcun nervosismo, e riesce a fare tutto senza dare l’idea di aver bisogno di aiuto.

Sarà che è mio padre.

Ma comunque quando vedo le mie mani, che con lui si comportano così bene, fare un sacco di pasticci con le cose più semplici, mi chiedo quando accadrà anche a me, di fare amicizia con gli oggetti.

Nei rapporti umani non mi danno problemi (ho una buona stretta di mano, pare), ma quando si tratta di cose, queste mi si rivoltano contro e non riesco a portare a compimento quasi nulla senza che vi sia uno sforzo, anche se microscopico.

Quand’ero piccola, e papà viveva a casa, lo guardavo aggiustare le cose. Si innervosiva, non dico di no, spesso non ricordava dove fossero gli utensili e si arrabbiava, anche. Però faceva sempre tutto, perché credo gli piacesse. La fase nervosa che precedeva l’applicazione puntuale nella risoluzione del problema, lasciava il posto ad un silenzio e ad una quiete profonde. Papà avvitava e svitava, io mi sentivo tranquilla.

In un certo senso è ancora così. Faccio le mie cose, creo problemi, chiedo a mio padre. Lui sicuramente ha i suoi momenti di nervosismo, di tensione, ma non lo vedo, perché siamo sempre lontani. Quello che vedo è la dedizione con la quale applica se stesso al problema da me prodotto (che di solito è un testo scritto in maniera caotica). Papà avvita e svita le mie incostanze, con le sue mani identiche alle mie, ma precise.

Non c’è verso di ringraziarlo appropriatamente, gli faccio dunque semplicemente i miei auguri. Da lontano, ma lui già sa.