Dell’incompiutezza

Avevo circa otto anni quando iniziai a scrivere il mio primo romanzo giallo. Era una storia ben poco interessante, ambientata in un residence estivo, con due bambini detective. Il caso da risolvere era un truculento omicidio (una signora anziana, molto ricca, con una casa bellissima), ma il “romanzo” si perdeva ben presto in noiose elucubrazioni sul senso della vita. Dopo una decina di pagine spese a descrivere tutti i giardini del residence, mi resi conto di non avere uno straccio di idea su come continuare. Avevo pensato all’autista, poi alla donna delle pulizie, infine ad una presenza aliena (leggevo Piccoli Brividi e Dickens, ero piuttosto confusa sulla questione “generi letterari”).

Scrivere mi divertiva, soprattutto perché traevo spunto da avvenimenti reali o futuribili. Ci mettevo un sacco di miei amici, parenti, conoscenti, mi emozionava farli muovere in un mondo dai strani contorni, in cui i ruoli perdevano rigidità e le contraddizioni la facevano da padrone.

Storie su storie, variazioni sui temi più improbabili (uno strano amore tra una donna e il suo gatto che era in realtà il suo migliore amico morto) sgorgavano da piccole manine irrefrenabili: diari, vecchie agende, fogli, quaderni, quadernoni. Ma ahimè, già allora avevo un livello di concentrazione bassissimo, per cui, di tutto quello che iniziavo, non finivo nulla.

A liceo pure scrivevo parecchio, e per finire i racconti (quasi sempre storie d’amore improbabili) mi sforzavo davvero molto e non sempre riuscivo a concluderli degnamente. Perdevo interesse e arronzavo il finale. Per cui, per esempio, l’eroina, quasi sempre una ragazzina timida e bruttina, bassa e incattivita dalla “vita”, si ritrovava innamorata di una specie di mezzo scemo sfigato, sbucato dal nulla e/o improvvisamente diventato interessante solo per creare, in chiusura, un po’ di pathos e senso di successo.

Di certo, l’opera di cui vado più fiera è il grande romanzo che ho iniziato a scrivere verso i 23 anni. Con quell’umiltà che mi contraddistingue, avevo deciso di dedicarmi ad un’epopea sudamericana. Ne era venuta fuori una storia da telenovelas, ambientata in Brasile (un paese che conoscevo solo attraverso la letteratura), con tanti personaggi e altrettanta fuffa. Novella Salgari (certo, come no), mi addentravo in scrupolose descrizioni: clima, scenari, flora e fauna erano grandi protagonisti del romanzo. Non so dove sia finito, ma  ricordo ancora qualcosa della trama. C’era uno, tipo un riccone sempre vestito di bianco. Una donna bella e cattivissima. Una protagonista giovane e svampita. Un ragazzo ingenuo e ben dotato. Un artista venuto dal nulla. Infine, un dramma familiare: il fratello della protagonista aveva sposato una pazza.

Un’accozzaglia splendidamente kitsch, anche leggibile, in alcuni punti, ma assolutamente priva di coerenza narrativa. Quando mi resi conto dell’impresa in cui mi ero – ingenuamente- imbarcata abbandonai la nave e tornai a dedicarmi ai racconti brevi e ai post sul blog, meno impegnativi e più credibili.

Solo poco più tardi ho iniziato l’ultimo romanzo incompiuto. Quello è bello, molto bello, ma non posso dirvi nulla, per cui sarà meglio che il mondo aspetti un altro po’. Oppure, sarà meglio che io ammetta definitivamente che ci sono cose che non finirò mai.

A volte mi fermo a non pensare.

Lascio semplicemente che il vento, l’acqua o un odore, mi passino addosso, dentro, accanto. Mi svuoto. Nel vuoto non ho bisogno di capire nulla e i nodi si sciolgono.

Quando esco dal silenzio, torna in me più forte la consapevolezza della necessità di decidere. Decidere cosa? La cosa più importante: come impiegare il mio tempo.

In fondo, nonostante possa e debba biasimarmi per tante cose, non posso certo rimproverarmi per tutti i romanzi, i racconti e anche i disegni incompiuti della mia vita. Il tempo passato a realizzare quella parte che poi è diventata il loro tutto, è stato un tempo felice.

Uno spazio di sogni grandi, di occhi grandi e mani frementi.

Avessi sognato meno, avrei fatto meno. Avrei fatto meglio. Sarei stata però più felice? Mica lo so. Mi ritrovo con diversi hard disk di roba illeggibile uscita da una testolina che cresceva, e mi piace pensarci.

Mi piace anche pensare di avere ancora tempo, fosse anche pochissimo, per godermi quella felicità, tangibile e reale, di creare cose, persone, dissotterrare sentimenti, volare aquiloni. La felicità di scrivere, insomma.

 

 

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